Taake – “Over Bjoergvin Graater Himmerik” (2002)

Artist: Taake
Title: Over Bjoergvin Graater Himmerik
Label: Wounded Love Records
Year: 2002
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Over Bjoergvin Graater Himmerik I”
2. “Over Bjoergvin Graater Himmerik II”
3. “Over Bjoergvin Graater Himmerik III”
4. “Over Bjoergvin Graater Himmerik IV”
5. “Over Bjoergvin Graater Himmerik V”
6. “Over Bjoergvin Graater Himmerik VI”
7. “Over Bjoergvin Graater Himmerik VII”

Esordire all’estremo tramonto della leggendaria decade novantiana con qualcosa di tellurico quanto “Nattestid Ser Porten Vid” sarebbe stato sufficiente a rendere per chiunque parecchio complicata la sola idea di un suo seguito, e non soltanto per la caratura artistica immensa di un simile debutto ma per il sentore di chiusura di un cerchio quasi simboleggiata da esso – non casualmente percepito tale anche da molti ascoltatori. Forse proprio per via della sua uscita nel simbolico 1999 o magari per l’aura malinconica permeante larga parte di quei solchi, l’opus primum dei Taake suggerisce paradossalmente l’idea del crepuscolo definitivo sull’età dell’oro norvegese secondo un tracciato che, dalla a suo modo coesa scena gravitante attorno all’Helvete, conduce alla frammentazione stilistica in atto da oltre un ventennio ad oggi; dalla visione settaria e per certi versi militarizzata di Euronymous agli eccessi da rockstar portati avanti tra il più serio ed il faceto da Hoest. Rispetto anzi all’epoca del suo primo parto, il menestrello di Bergen si trova infatti nel 2002 ancora più solo in un ambiente sfaldato ed abbandonato, oltre che dai padri fondatori defilativisi allora a suon di “Rebel Extravaganza” o “At The Heart Of Winter”, pure da precedenti alleati venuti meno per spinte creative eterodosse talvolta legate a complesse vicende umane, tra cui spiccano gli ultimi bei guizzi dei Gorgoroth sul comunque tourettico “Incipit Satan” e la sublime autodistruzione dei Carpathian Forest nella doppietta d’inizio anni duemila sotto Avantgarde Music, per tacere del mortale silenzio che avvolge dei Kampfar dati a questo punto per dispersi tra le conifere; un silenzio che sarebbe durato ancora quattro anni, prima della sorpresa del rientro in pista con “Kvass”.
Intanto, mentre il resto dell’Europa centrale risponde a questa latitanza con il senza misteri correlato successo immediato dei dibattuti Nargaroth di “Herbstleyd” e “Black Metal Ist Krieg” (oltre che con i Darkened Nocturn Slaughtercult e il fenomeno Katharsis ben più lontano dai riflettori), e la Svezia guarda al reazionario manifesto francese della fine del secolo per riportare nel frattempo verso i lidi più neri, anti-commerciali, putridi ed ortodossi il genere con i Craft (“Total Soul Rape”, 2000), i Watain (“Rabid Death’s Curse”, ibidem) gli Shining (“Within Deep Dark Chambers”) e le prime manifestazioni di un’inclinazione che stravolgerà l’estetica dell’intero panorama a partire dagli Ondskapt e dai Funeral Mist (tra l’EP “Slave Under His Immortal Will” del 2001 dei primi, e il monumentale “Salvation” del 2003 dei secondi), in patria norvegese la staffetta di quel Black Metal che per alcuni sta perdendo la sua purezza espressiva e violenza originaria è portato avanti dai debuttanti Tsjuder di “Kill For Satan” e del più riuscito “Demonic Possession” (utili tuttavia più a riempire un vuoto stilistico che altro), e proprio dalla peculiare creatura di Ørjan Stedjeberg impegnata tra il 1999 ed il 2005 nella tripartizione della sua opera prima.

Il logo della band

Ma in qualsiasi trilogia che si rispetti è notoriamente il secondo capitolo ad essere quello più complicato da gestire: l’urgenza di aprire il discorso impostandolo sui propri punti di forza è già stata fatta confluire nell’opera iniziale -specie quando poi quest’ultima coincide con un esordio a tutti gli effetti- mentre il comprensibile terrore di un finale deludente porta spesso e volentieri a tenere da parte i bocconi migliori in attesa dei fuochi d’artificio conclusivi. Ad ogni modo il veticinquenne Hoest, affiancato stavolta da una line-up completa e a posteriori quasi maledetta (tra la bassista Keridwen scomparsa tredici anni dopo ed il chitarrista C. Corax di lì a poco finito in prigione per poi uscirne illuminato e convertito al cristianesimo) nonché sicuramente fortificato dal clamore appena riscosso presso pubblico e critica, non sembra avere per la testa simili congetture e rimane al contrario saldo a sfidare apertamente lo zeitgeist modernista che si aggira per la madrepatria. Il battaglione Taake fa pertanto ritorno al tempio laico dei Grieghallen dove il decano Pytten ed i sinistri custodi Davide Bertolini e Herbrand Larsen, entrambi dietro al mixer per i coevi Enslaved (due anni prima dell’ingresso del secondo proprio nella band di Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson alle tastiere), controbilanciano l’inspiegabile copertina rosata diffusa da Wounded Love col nero pece del classico sound norreno, filo diretto col passato necessario a far risaltare in contrasto l’ancora una volta grandioso lavoro di scrittura, alieno a qualsiasi influenza straniera eccetto il genio di un autore la cui furbizia, tutto sommato, è stata il presentarsi come il solito blackster cialtrone anziché da compositore tra i più accorti e distinti di un intero genere.

Hoest

Si parte dunque tutti assieme, come se da “Nattestid…” non fosse trascorso che l’attimo necessario a cambiare il compact disc nel lettore. Lo scopo programmatico di “Over Bjoergvin Graater Himmerik”, ultima fatica del progetto sotto la parente label meneghina di Avantgarde Music, è quello di tenere alta la tensione tra la forza teorica del predecessore e quella intimistica del seguito “Hordalands Doedskvad”; e per il lider maximo della brigata scandinava l’unica via percorribile in tal senso è replicare le mosse già collaudate e far leva sulla maggiore maturità mischiata al suo innato senso per il lato oscuro dell’estremo. Lontana dall’essere una pretenziosa trovata pseudo-artistica, e men che meno il sintomo di un’assai poco celata carenza testuale, l’assenza replicata di titoli ai sette movimenti in scaletta cementifica il senso di continuità sia tra le tre tappe del macro-concept portato avanti per ben sei inverni sia tra le sezioni chiamate a comporne le rispettive ossature. L’attitudine al tempo stesso minimale nell’esecuzione (non ci si muove dopotutto quasi mai dal triumvirato di chitarra, basso e batteria) ed innovativamente barocca nelle strutture per un simile scarnificato sound (totalmente privo, vale a dire, degli eccessi sinfonici coevi di tastiere o altri ammennicoli sperimentali), tramite piogge torrenziali di riff che qui diventano il marchio di fabbrica se non direttamente la firma dell’autore portati avanti per poche battute prima di cedere il passo a quello successivo, favoriscono così lo smarrimento di un ascoltatore a cui è precluso perfino aggrapparsi al nome di un brano, disperso com’è in un mare di nebbia dove di riferimenti per orientarsi non se ne vedono affatto. Ma questo trionfo musicale rimane tuttavia impresso in angoli di mente e spirito ben distanti dalla memoria, al contrario pericolosamente prossimi al cuore come alcune folate di gelido vento orchestrate con una perizia per niente comune specie nel 2002: freddo quanto una lama scorre sulla schiena l’ipnotico tremolo che interrompe la silenziosa pausa a metà del secondo pezzo, bissato nell’accoppiata a seguire prima da un rallentamento di chiara ispirazione folklorica (lo scacciapensieri dei neonati Moonsorrow adagiato sulla marzialità dei fondativi Isengard) e poi dalla cavalcata tra le latifoglie nordiche spinta da sei corde sfigurate dall’elettronica, in quello che ciononostante rimane un frammento tra i più neri esplosi dal grande boom risalente a un decennio addietro.

“Over Bjoergvin Graater Himmerik” però non si spegne di botto, avendo consumato tutta l’aria attorno a sé nell’istinto ribelle di ardere fino all’ultimo al pieno delle forze, bensì affievolendosi nei quattro minuti e mezzo di un epilogo tutto tenue, intimo ed equidistante dalla statuaria magniloquenza che terminava “Nattestid…” due anni prima, così come dal moto di fierezza indomita in cui culminerà l’“Hordalands Doedskvad” di tre anni successivo. Possibile quindi che Hoest, giunto di fronte alla sfida alquanto ardua di sigillare un’opera dalle fattezze ben diverse dalle necessità espressive del debutto e dalla celebrazione dell’intera epopea Black Metal messa su spartito nel terzo, abbia semplicemente lasciato parlare l’Ørjan Stedjeberg talvolta lasciato un po’ in disparte in favore di smargiassate musicali e non soltanto; eppure, sempre splendidamente nascosto dietro l’aristocratica eleganza del personaggio emergente persino nei lavori più quadrati e diretti venuti dopo. Del resto, nessuna bravata sul palco o disco meno riuscito rispetto agli enormi standard qui imposti potrà cancellare dalle orecchie di almeno una generazione di appassionati la sincera meraviglia all’ascolto di tre album non invecchiati di un solo giorno anche al superamento oppure approssimarsi del ventennale, e concepiti dall’ultimo autentico cantastorie della sua terra davvero in grado, con oltretutto quasi dieci anni di ritardo sulle icone da lui per primo idolatrate, di fare ancora piangere il Paradiso sopra Bergen.

Michele “Ordog” Finelli

Precedente Immortal - "Sons Of Northern Darkness" (2002) Successivo Empyrium – "Weiland" (2002)